Durante il Camino me ne avevano parlato gli statunitensi che quest'anno si erano avventurati in molti, sull'onda della spinta emotiva che il racconto cinematografico aveva creato in loro, per i sentieri che partono dalla Navarra per arrivare in Galizia, ma non lo avevo ancora visto.
Parlo del film di Emilio Estevez che ha come protagonista suo padre Martin Sheen, il cui titolo italiano è "Il cammino per Santiago".

Ma il motivo per cui ne scrivo è un altro, è l'emozione profonda, il groppo alla gola che la vista di quei luoghi mi ha generato.
Non avevo ancora considerato questo aspetto, lo faccio adesso.
Il film utilizza scenari che ho calpestato giorno dopo giorno, sui quali è caduto anche il mio sudore e che mi hanno generato dolore fisico e non solo fisico. le mie lacrime hanno trovato alloggio definitivo in vari punti del Camino.
La sensazione è bella, paradossalmente, anzi è meravigliosa.
Così mano a mano che le scene scorrevano ho acquisito la consapevolezza che il Camino mi appartiene e che mi sono indissolubilmente legato a sentieri, paesaggi, persone che forse non rivedò più, ma che ho visto il tempo necessario perchè si creasse quel qualcosa che troppo spesso cerchiamo senza trovare, un legame vero, profondo, in cui noi siamo noi stessi e loro (lorse) sono loro stessi, ma quest'ultimo è un aspetto marginale.
In realtà, il Camino è un viaggio alla ricerca del proprio essere, lo è per quasi tutti.
Un viaggio fatto di materia e spirito intrecciati in modo inscindibile. Un percorso che genera senso di appartenenza senza che lo si avverta, ci vuole un poco di tempo e ci si trova legati a delle radici, contenti di esserlo.
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